La Valgoda dello chef Roberto Meneghini
Tra la montagna e il cielo
In terra di Enego – Ghénebe – c’è un luogo affascinante sospeso nel tempo e nei ricordi dello chef della Trattoria Sette Teste, Roberto Meneghini. È la Valgoda, un borgo magico appeso al cielo tra l’Altopiano dei Sette Comuni e la Valsugana. Siamo in un luogo simbolo, una specie di “porta del tempo”, un pugno di case e un crocevia di sentieri un tempo battuto dai coltivatori, dai commercianti e dai contrabbandieri, che da qui arrivavano o scendevano dalla pianura per scambiare il tabacco coltivato nei terrazzamenti d’alta quota. La Valgoda ancora oggi è rimasta un luogo di sogno, sospeso tra il presente e il passato profondo di queste montagne.
Oggi in Valgoda non ci abita più nessuno se non nei periodi in cui le stagioni lo consentono. Lo chef Roberto Meneghini però ricorda i suoi abitanti, i loro nomi e i loro volti. Ricorda ancora di quando era bambino, quando nei giorni di mercato alle Sette Teste di Enego arrivavano tutti dalle contrade per mangiare le trippe, e lui, attraverso il solaio del piano di sopra, ascoltava le incredibili storie degli abitanti della Valgoda.
Custode della memoria
Lo chef Roberto Meneghini è un grande narratore e di storie da raccontare la sera tra i tavoli del suo ristorante ne ha davvero tante. È un vero e proprio custode della memoria e sa incantare e trasportare i suoi ospiti per ore. La Valgoda, è nel suo cuore e a volte, ascoltandolo, sembra si possa raggiungerla giusto aprendo la porta delle Sette Teste.
Si narra, che nelle sera d’estate, non sia nuovo ad accompagnare i suoi ospiti dopo cena a visitare la Valgoda e a godere delle stelle e dell’aria fresca che sale dalla Valsugana. Una volta persino, a notte tarda, chiuso il ristorante ha portato a far festa in Valgoda due ospiti illustri: Diego Dalla Palma e Ornella Vanoni.
La chiesa di Valgoda intitolata alla Beata Maria Vergine del Rosario
La Valgoda un tempo
La Valgoda, come riportato precedentemente, era un crocevia di sentieri tra la Valsugana e i Sette Comuni. Quindi un punto importante di passaggio. Rivolto verso sud, i suoi terreni erano coltivati sui terrazzamenti realizzati attraverso un lavoro immenso: una vera e propria sfida tra l’uomo e le asperità della montagna. Negli anni tra il 1950 e il 1960 ci abitavano circa 350 persone. Poi hanno cominciato ad andarsene in varie parti dell’Italia o all’estero dove trovavano da lavorare. Qui c’era la scuola elementare e, quando trovava il tempo necessario, veniva anche il parroco don Girolamo Vialetto a celebrare la messa. Tutti o quasi tenevano nella loro stalla almeno una mucca da latte, tanto che nella contrada si contavano almeno duecento bestie tra grandi e piccole. Nei terrazzamenti si coltivava di tutto con un piglio di soddisfazione: patate, legumi, granoturco, frumento, orzo, avena e, naturalmente, il tabacco. Una terra povera, ma generosa, disse in un intervista su “La Brenta” nel numero di dicembre 2015, l’ultimo abitante della Valgoda Ugo Dalla Costa.
Le case di Contrada Valgoda oggi
L’ultimo dei Valgodati
Ugo Dalla Costa è stato l’ultimo dei Valgodati. In contrada, sulla porta di una casa, è appeso un articolo del giornale “La Brenta” del 2015, dal quale abbiamo tratto alcune parti di questo articolo. Ugo ricorda che le due gallerie che si attraversano oggi per raggiungere la contrada da Enego sono state scavate tra il 1933 e il 1934. A quei tempi la strada era poco più che una mulattiera ed è stata asfaltata intorno al 1995. Quando nevicava, e a quei tempi nevicava eccome, provvedevano gli abitanti della Valgoda e della vicina Valdicina allo sgombero.
Qui erano tutti contrabbandieri
Qui in Valgoda si coltivava il tabacco ed erano tutti contrabbandieri. La contrabbandiera per eccellenza è stata l’Ambrosia “Firota”. Vedova e con nove figli, tutti molto giovani, ha mantenuto la famiglia con il contrabbando.
La “Poenta Santa”
Si racconta che i nostri vecchi partivano dalla Valgoda per scendere a Scorzè per barattare la farina per la polenta. Alle 5 del mattino scendevano per gli strodoli che portano in Valsugana pestando i sassi della mulattiera. Più erano più grano portavano a casa. Arrivavano a Scorzé con il treno che collegava Trento a Venezia con una scorta di tabacco da contrabbando per pagare la farina. Era farina bianca, magari, quella per fare la polenta che poi si tagliava col filo. Fatto lo scambio ritornavano verso le montagne. A sera, scendevano dal treno a San Marino e chiedevano a “Bepi Stasion” se gentilmente poteva tenere lì i sacchi di farina. Sarebbe stato dato andar per la montagna col scuro e con i sacchi così pensanti non sarebbe riuscito a salire neanche Golia. El poro Bepi capiva la situazione, custodiva con attenzione i sacchi in attesa del giorno dopo, quando i Valdogati tornavano per portarseli a casa. Ma non era finita, perché una volta arrivati in Valgoda, dovevano portare i sacchi a Enego per poter macinare il grano al mulino. Quindi: altro sei chilometri di andata e altri sei per il ritorno. Ma quanto “Santa” era quella polenta?
Ristoratori Sette Comuni | gennaio 2020
testo di Antonio Busellato
foto di Luca Benetti